Verseg(g)iare in Latino

ovvero

Come prendere 9 in lettura metrica

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Premessa

Su ARechis.it nella rubrica latina poteva mai mancare un accenno al sistema metrico dei nostri antenati? Naturalmente no. Perciò ci siamo presi la briga di mettere in tela (su Internet, per intenderci) una breve guida alla metrica, in cui peraltro verrà analizzato un verso solo, l'endecasillabo. Naturalmente non siamo insegnanti, le informazioni potrebbero sembrare talvolta troppo sbrigative, però si può stare (quasi) tranquilli sul contenuto.

Origine del metro latino

La poesia propriamente detta, non quella che oggi è spacciata come tale, è un succedersi compiuto di parole che siano in se dotate di una certa musicalità. In Italiano la cosa si rende in due modi:

    1) Rime, assonanze, consonanze, ecc. che gestiscono la musicalità tra le parole;

    2) Sistema degli "ictus" o degli accenti, che gestisce la musicalità propria della parola.

Un esempio per tutti, dalla Divina Commedia, Inf. I, 1/3:

Nel mèzzo del cammìn di nòstra vìta

mi ritrovài per ùna sèlva oscùra

che là dirìtta vìa era smarrìta

La posizione degli accenti è chiara (faccio notare che in molti libri si tiene conto di tutti gli accenti; in realtà però quelli che davvero servono sono solo quelli qui segnati, come si evince anche dalla lettura), e parimenti sono evidentissime le rime. In giallo poi ho segnalato tutte le figure metriche più interessanti, e si può ben vedere come la ripetizione di più lettere uguali dia una forza ancora più forte ai versi. Quest'ultimo aspetto soltanto però, incredibile a dirsi, è presente nella poesia latina. Tutti gli altri, specie rime e accenti, sono invece totalmente ignorati, e sbucheranno fuori solo a partire dal secolo IV d. C..

Allora come funzionava la loro poesia? In effetti non è facile dirlo. Abbiamo i loro manuali, le loro poesie, i loro metodi, classi e definizioni, ma purtroppo non siamo ad oggi in grado di determinare con esattezza dove stesse la musica della loro poesia, e ciò nonostante si decanti la musicalità del Latino. Quello che invece sappiamo per certo è che per loro le vocali avevano due "quantità", una lunga ed una breve, concettualmente un po' come per noi possono essere aperte o chiuse, ma con la differenza che loro si basavano appunto sulla durata di ogni singolo suono. Dall'alternanza poi di queste brevi e di queste lunghe nasceva il verso, come per noi nasce dall'alternanza di vocali accentate e non.

Fin qui nulla di stranissimo. Il fatto è che, pur volendo provare a dire ogni vocale con più o meno tempo, non si ottiene proprio nulla: si ha solo l'impressione che il lettore abbia il mal di gola, sia terribilmente stonato o, peggio, tenti di fare una maldestra imitazione della voce di qualche insegnante. Ma dov'è l'inghippo quindi? Come mai non è possibile ottenere questa musica con i mezzi datici dai Latini? Qui possiamo dare due possibili risposte:

    a) Non siamo più capaci di dire nè di sentire la differenza tra lunga e breve;

    b) La lettura non si basava sul tempo di pronuncia.

La prima è la preferita dagli insegnanti, ma tuttavia è semplicemente assurda. Pretenderebbe che ci si possa "dimenticare" in un qualche modo di un elemento grammaticale alla stegua dell'accento, ovvero che è parte integrante della parola stessa. Il fatto poi che loro definissero la differenza come "quantità" non vuole dire nulla: il Latino ha la varietà lessicale del Siciliano, ovvero abbonda di termini pratici e difetta di termini teorici, a differenza del Greco che è il suo esatto opposto. Quindi si può ragionevolmente pensare che non esistesse altro termine per definire questa "cosa" che per i Greci costituiva un fenomeno così macroscopico da prevedere simboli diversi per le diverse lunghezze delle vocali. Recentemente quindi è tornata alla ribalta la teoria musicale, che vede nelle brevi e nelle lunghe una alternanza tonale. In poche parole è come se la lunga fosse su di una certa onda (come un Do) e la breve su di un'altra (come un Re), da cui la capacità delle parole di formare un unico verso in assoluta indipendenza rispetto agli altri, mentre in Italiano è necessario che siano almeno in due per la più banale delle rime. Perciò in ogni caso ci risulta impossibile leggere i versi Latini o Greci, almeno allo stato attuale delle conoscenze in materia.

Tuttavia gli insegnanti italiani non la diedero per vinta, e si inventarono un metodo per leggere questi benedetti versi in un modo "poetico", attraverso un sistema del tutto antistorico e fittizio, che si limita a porre un accento sulle lunghe, il quale però aiuta moltissimo a renderli appetibili agli studenti. In effetti chi di noi preferisce una pagina dei Promessi Sposi a due di Dante? Credo nessuno.

Il metro per eccellenza: l'endecasillabo

Si è detto che la musicalità deriva da un insieme di brevi e di lunghe. La breve ha come simbolo ˘ , e la lunga ˗ , entrambi posti sopra le vocali. Uno dei metri o piedi (insiemi di sillabe con vocali lunghe e brevi) più comuni è il dattilo:

ˉ ˘˘

Si tratta, come ben si può vedere, di una lunga e due brevi assieme. Naturalmente, siccome 1+1=2, le due brevi possono essere sostituite da una lunga (mai il contrario), da cui un'altro metro, lo spondèo, in cui il dattilo tende a trasformarsi:

ˉ ˉ

Omero, circa il secolo VIII a. C., utilizzò per primo un insieme di sei dattili, tra i quali erano una o più pause:

ˉ ˘˘|ˉ ˘˘|ˉ ˘˘|ˉ ˘˘|ˉ ˘˘|ˉ ˘

Si noterà subito che l'ultimo dattilo manca di una sillaba breve; questo perchè in realtà l'ultima sillaba di un verso Latino o Greco è assolutamente indifferente, e ben presto si ebbe la catalessi (=caduta) dell'ultima breve, creando un disillabo, ovvero lasciando solo due sillabe (ˉ ˘) o trocheo, il che tuttavia non è una regola assoluta. Tenendo conto che in Greco sei si dice esa, e piede (cioè il dattilo) podos, si afferma che questo verso è una

esapodia (=insieme di sei piedi) dattilica (=i piedi sono dattili)

catalettica in disillabo (=manca l'ultima sillaba e ne restano solo due)

O, più semplicemente, un esametro, che equivale ad esapodia (podos=metron, inquanto era con il battere del piede che si segnava il succedersi della quantità). Questo metro è quindi il più antico ed austero della letteratura antica, uguale al nostro endecasillabo (quello di Dante). Grazie a quanto detto fin'ora possiamo fare altre affermazioni sulla metrica Latina:

    1) Il numero delle sillabe non è fisso. Infatti non conta la sillaba in sè, ma le sue vocali, ed eventualmente più sillabe possono essere utilizzate per formare una lunga. Non così in Italiano (ad esempio l'endecasillabo è 11 sillabe, e non 15 o 16); questa particolarità è definita dicendo che in Latino l'isosillabismo (=uguaglianza delle sillabe trai versi) non è determinante;

    2) In Latino non conta la sillaba, ma il piede. Quindi non esisterà una sillaba o una parola, ma il dattilo, lo spondèo o il trochèo, o il giambo (altri metri...) eccetra.

Ma infine, come si fa a determinare se una vocale è breve o lunga? Il problema non è da poco. Chi, ma sono in pochi, ha avuto la fortuna di utilizzare il metodo Ørberg per lo studio del Latino, ha avuto da sempre a che fare con testi che segnano puntualmente la lunghezza delle vocali (solo le lunghe, sulla breve in genere non si mette nulla), mentre i "tradizionalisti" si trovano solo qualche volta segnate le brevi dove la dizione italiana metterebbe un accento che in Latino non c'è (ad esempio in Theologĭa, che si legge Theològia e non Theologìa). Ciò naturalmente provoca terribili errori di lettura già nella prosa, figurarsi in poesia! Ma tuttavia esistono delle regole in Latino, ed anche abbastanza ferree. Dato però che sono diverse centinaia, qui ci si limiterà a dire quei casi comunissimi in cui una vocale è lunga o breve.

  1. La vocale è lunga se la sillaba che la contiene è "chiusa", ovvero finisce per consonante. Es.: Fālsūm;

  2. La vocale è lunga se si tratta di un dittongo, ed allora le due lettere fanno per lunga. Es.: Ǣtna;

  3. Una sillaba può essere lunga per natura, ovvero senza ragione. Si vede quando i conti non tornano;

  4. Vocalis ante vocalem brevis est, una vocale davanti a vocale è breve. Es.: dĕa;

  5. La vocale è lunga se si tratta di un avverbio in e: falsē, probē, rectē, sanē;

  6. Lunga in Ablativo, Genitivo (2a) e Dativo 1a & 2a declinazione: amicō, filiā, Marcī;

  7. Lunga in Plurale Nom., Abl., Dat. 2a declinazione: aliī, anulī;

  8. Lunga nelle vocali tematiche Genitivo pl. 1a & 2a decl.: filiōrum, quārum;

  9. La o a fine di parola (esclusi dativi & ablativi), non di rado è breve: volŏ, nemŏ;

  10. Il -que (=et) enclitico è sempre breve;

  11. Il -us di 2a declinazione è sempre breve;

  12. I monosillabi: et ab quis is ut, ecc., sono di solito brevi;

  13. I monosillabi chiusi se aggettivi o nomi sono lunghi. Es.: Sōl.

  14. Non-regola (constatazione): in Latino la prima sillaba del verso è lunga.

Inoltre si deve sapere che in quod, come in tutte le parole con la sillaba qu, la u è consonante, e veniva letta v: QVOD; percui non va assolutamente contata. Esistono poi una serie di parole le cui sillabe sono ancipiti, ossia possono essere lunghe o brevi a piacimento dell'autore.

L'esametro in pratica

Ma proviamo adesso a vedere come si scandisce e, soprattutto, si legge un verso latino. Porteremo alcuni esempi da autori noti con scansione metrica, lettura e traduzione. Con il segno || segnaliamo la presenza della pausa, che non analizziamo per questioni di spazio in questa sede.

 

VIRGILIO, Eneide, I, 1. - Incipit famosissimo, ma in realtà si tratterebbe del 5° verso del poema.

Arma virumque cano, Troiae qui primus ab oris

1            2            3            4            5            6

Ārmă vĭ|rūmquĕ că|nō Trŏĭ|ǣ quī| prīmŭs ăb| ōrīs

 Àrmavi͜  rùmqueca͜  nò||Troi͜  ǽqui ͜   prìmusab͜  òris

Canto l'armi e l'uomo che per primo dalle spiagge di Troia...

 

ENNIO, frammento dagli Annales - Uno dei più antichi poemi Romani, gli Annales, è ormai in frammenti.

O Tite tute Tati, tibi tanta turamne tulisti!

ō Tĭtĕ| tūtĕ Tă|tī tĭbĭ| tāntă tŭ|rāmnĕ tŭ|līstĭ

òTite͜  TùteTa͜  tì||tibi͜  tàntatu͜  ràmnetu͜  lìsti

O tu Tito Tazio, quanti mali, tiranno, hai sopportato!

 

OVIDIO, Amores, III, 2. - Una delle molte raccolte di poesie amorose del grande Publio Ovidio Nasone.

Non ego nobilium sedeo studiosus equorum

Nōn ĕgŏ| nōbĭlĭ|ūm|| sĕdĕ|ō stŭdĭ|ōsŭs ĕ|quōrūm

nònego͜ nòbili͜ ùmsede͜ òstudi͜ òsuse͜ quòrum

io non siedo [nell'ippodromo] interessato ai nobili cavalli